Accostandosi all’ultima opera di Salvo Di Matteo
"Viaggiatori stranieri in Sicilia dagli Arabi alla seconda metà del XX secolo ", che parla di coloro che dall’età degli Arabi vennero in Sicilia e del loro passaggio lasciarono un segno, falange cospicua di viaggiatori in movimento attraverso una terra che, più di ogni altra e forse unica, ai suoi esploratori seppe suscitare sensazioni contraddittorie, imporre confronti ardui, trasmettere esperienze straordinarie, scontato - dicevo - rimeditare la celebre asserzione di Giovanni Gentile: "L’isola era stata sempre sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo".
Il filosofo castelvetranese affidava la propria persuasione soprattutto all’attestazione del La Lumia, autore di un saggio - antesignano della storiografia sul tema - sui viaggiatori del Settecento in Sicilia, il quale un trentacinquennio prima così aveva dato identità ai fattori espressivi di quell’isolamento storico e geografico: "Qualche archeologo o artista che la curiosità de’ monumenti antichissimi traeva a percorrere i lidi incantevoli ove grandeggiarono un dì Siracusa ed Agrigento; qualche commerciante straniero che le occasioni del traffico spingevano sui mercati di Palermo o Messina; pochissimi viaggi periodici (due o tre in ciascun mese) tra Palermo e Napoli, e questi stessi malsicuri e incerti...: ecco lo stato degli usuali rapporti che legavano alla terraferma questa estrema parte d’Italia".
E non valeva che, nel primo trentennio dell’Ottocento, un francese che in Sicilia aveva viaggiato, Achille-étienne Gigault de la Salle, redigendo il ragguaglio della propria periegesi, avesse per converso vantato il ruolo centripeto assolto dall’isola sul piano turistico (mi si passi l’anacronismo del termine) e su quello culturale: "Essa ha spesso richiamato su di sé un vivo interesse, esaltato l’immaginazione del viaggiatore ed offerto alla scienza inesauribili conoscenze".
Una Sicilia segregata, allora, almeno fino all’età risorgimentale, esclusa dalla tela dei percorsi geografici e delle interrelazioni culturali che attraversavano il Mediterraneo, astratta e remota entità fisica, avvolta nei soporiferi vapori delle memorie classiche, o, al contrario, polo di attrazione di schiere di escursionisti che, travalicando quella sorta di Colonne d’Ercole dell’Italia che di fatto per tanto tempo furono le sponde del Garigliano, cedevano agli allettamenti di una terra depositaria di una eredità classica dalle grandi attrattive, posta all’incrocio fra civiltà occidentale, Africa e Oriente, che seppe dare ininterrotto soddisfacimento alle istanze dei suoi pellegrini, numerosi e perenni questuanti della conoscenza?
Se, da un canto, il singolare infortunio nel quale erano incorsi i redattori della francese Encyclopédie - quel gran portato della razionalità e dell’aggiornato sapere di una intellettualità che si identificava esponenzialmente nel "secolo dei Lumi" - sembrava suffragare l’assunto gentiliano di una esclusione dell’isola dal contesto delle relazioni e delle comuni conoscenze (gli enciclopedisti avevano descritto Palermo come città "distrutta da un terremoto" che in passato era sorta sulla costa settentrionale della Sicilia), e se il fiorire negli stessi anni in ambiente cosmopolita di una ricca letteratura periegetica intorno all’isola, che per tutto un sessantennio almeno professò il senso e gli stupori della "scoperta" e manifestò la pedagogica esigenza della comunicazione all’Europa delle novità conosciute, sembra giustificare l’amara sintesi offerta dal La Lumia, inducendo a opinare che solo allora e grazie ad essa la Sicilia veniva a rivelarsi in ambiente internazionale, bisogna dire però che mai, prima d’allora, fin dagli anni della civiltà islamica, per restare ancorati al confine cronologico di quest’opera, la Sicilia fu di fatto estranea al circuito dei viaggi, esclusa dall’interesse delle esplorazioni, preclusa alle presenze forestiere, sconosciuta alle cosmografie.
È vero, ne mancò l’attestazione, o, meglio, la degna attestazione, e fino a tardi Napoli costituì la frontiera oltre la quale erant leones, perché i trattati geografici fino al tramonto dei Seicento le dedicavano solo poche e superficiali informazioni, frutto spesso di nozioni raccogliticce e fallaci; ma fornivano le essenziali notizie ai viandanti Itineraria e Deliciae Italiae, primordiali manuali di viaggio che, in occasione delle celebrazioni degli Anni Santi, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, agevolarono i pellegrinaggi delle ingenti masse di fedeli che da ogni luogo si spostavano alla volta delle basiliche apostoliche, non di rado poi sciamando per l’Italia: e proprio una tale circostanza convince dell’appartenenza della Sicilia, in qualche misura, al circuito dell’Europa viaggiata.
Né il fenomeno può dirsi che fosse solo di quei primi secoli dell’età moderna: dovremmo credere altrimenti che, quando la Sicilia, prima dell’anno Mille, nel pieno fulgore dell’età islamica, già rifletteva all’intorno i bagliori di una civiltà ignota ad ogni altra parte d’Italia, soltanto gli iracheni Al-Mâsudî e Ibn Hawqual e il gerosolimitano Al-Muqaddasî siano venuti a calcarne i percorsi, o non sarà piuttosto da ritenersi che, di una ben più cospicua schiera di mercanti e di viaggiatori, di naviganti e di sapienti che viaggiarono per i suoi mari e le sue contrade in tempi in cui la Sicilia aveva relazioni incrociate coi Paesi dei musulmani e con l’Europa, essi siano i soli dei quali ci siano pervenute le relazioni, o i soli che ne abbiano scritte?
Nei successivi secoli del medioevo, l’isola continuò ad essere terra di transiti e addirittura "center of travel-interest", come si esprime G. B. Parks (The English Traveler to Italy), per genti di varie nazionalità ed estrazioni, provenienti da Occidente e Settentrione: per monaci e dignitari di Corte, militi e trovatori, crociati e pellegrini, e ancora per viaggiatori arabi che enfaticamente ne esaltarono poi le mirifiche qualità; ed ebbe parte in tutte le cronografie del tempo.
Comparve anche nella più singolare delle rappresentazioni geografiche, la tardo-duecentesca carta di Ebstorf, raffigurata in foggia di "cuore del mondo".
Ma come potrebbe pensarsi, in un organismo, un cuore per il quale non passassero tutte le vie della vita? La Sicilia fu, dunque, allora, battuto e vitale crocicchio del Mediterraneo, che le successive convulse vicende della sua storia, e più tardi la minaccia ottomana - rendendone rischiosi gli approdi - dovevano in buona misura sottrarre ai circuiti odeporici; purtuttavia presenze cospicue si ebbero di visitatori, e fu il tempo dei corografi e degli esploratori venuti a rilevarne la realtà topografica.
L’opera degli uni, però, meticolosa all’eccesso, preordinata a fini militari e strategici, non era destinata alla pubblica fruizione, mentre nelle ponderose cosmografie del Cinque e Seicento l’isola non andò esente dalla descrittiva irrazionalità dei compilatori, che ne fecero terra di astratta fantasia, doviziosa di miniere aurifere, tarlata da sterminate caverne sulfuree, dominata da monti che per spazi immensi eruttavano vapori e lapilli, battuta da mandrie di cavalli bradi.
E tuttavia, proprio in virtù di siffatte curiose divagazioni, o loro malgrado, la Sicilia entrò in quel tempo nei codici formativi dei giovani d’alto lignaggio che dalle varie parti d’Europa stuoli di precettori e di famigli guidavano alla conoscenza del mondo; le loro periegesi s’incrociavano coi transiti per l’isola dei pellegrini che da Occidente muovevano alla volta della Terrasanta e con gli scali nei suoi porti dei vascelli diretti all’isola di Malta, divenuta con l’insediamento dei Cavalieri strategico capolinea di una frequentata via di comunicazione che appunto passava per la Sicilia.
Senza dire, poi, delle numerose imbarcazioni venute alla ricerca del suo grano, del suo sale, della sua seta e per qualche tempo anche del suo zucchero.
Ma anche nel Seicento, per l’arrivo di dotti protesi a indagare i fenomeni della natura, di antiquari applicati a interrogare gli avanzi delle antiche civiltà, di artisti venuti a esperire i primi approcci alla realtà figurativa dell’isola, di viaggiatori interessati alla visione organica della regione come presupposto alla rappresentazione descrittiva di essa, la Sicilia vide gli esordi di una nuova misura del viaggiare, per cui fu infine terra di esperienze odeporiche non più e non soltanto come strumento di personale conoscenza, ma per l’impianto di una visione mediatica della sua realtà oggettiva: certo, l’approccio fu ancora timido, l’osservazione rudimentale, la rendicontazione avara di umori e di emozioni.
L’evoluzione dei caratteri paradigmatici che connoteranno il viaggio in Sicilia come impresa dalle somme implicazioni spirituali e persino esistenziali è della seconda metà del successivo secolo.
Avvenne allora come se un sortilegio si fosse rotto, come se un’Europa impaziente, pregna di spiriti illuministici, attendesse il momento predestinato della bella avventura: giunsero in Sicilia in frotte (non per nulla quella stagione fu detta del Grand Tour) i suoi messaggeri, portatori appassionati di un ideale immaginativo inzeppato di classiche reminiscenze, stillante di deliqui arcadici, predisposto alle sensazioni forti che prometteva la visione illusoriamente accarezzata di un mondo esotico e selvaggio, incorrotto e mitico, splendido e solare, amalgama di fascinosi richiami che poche variabili concedevano al programma ideologico che gli avventurosi s’erano ripromesso.
Si scontrarono, il più delle volte, con una realtà di povere cose (si pensi quel che potessero essere le condizioni infrastrutturali e ricettive di questa terra alla fine del Settecento) che, in coloro che seppero deporre il filtro deformante della propria visione immaginifica, costituì stimolo alla riflessione e, nei giornali di viaggio, materia di preziosa testimonianza storica.
Ma da quell’espressione maturarono pure i presupposti di una nuova stagione di viaggi, che gli anni delle guerre napoleoniche e delle vicende risorgimentali affinarono: affrancato dalle catartiche istanze alle straordinarie suggestioni, il viaggio in Sicilia sempre più si fece manifestazione di un esodo alla volta di luoghi nei quali le cose ora valevano per la loro concreta immanenza, per l’identità sostanziale che le connotava; alla stagione mitica della scoperta e della sorpresa subentrò insomma un diverso atteggiarsi del visitatore nei confronti della realtà isolana, e nuovi e più maturi equilibri s’imposero nel rapporto intellettivo che s’instaurava fra l’osservatore e la realtà osservata.
Ormai i visitatori s’erano fatti adulti, né più agivano le regole dello stupore e dell’enfasi, sì che le cose e le situazioni ebbero una rappresentazione alfine disincantata e raziocinante.
Entusiasmi ed emozioni non vennero meno, ma nei moltissimi che viaggiarono per la Sicilia nella seconda metà dell’Ottocento e nei decenni successivi nuovi codici di lettura della realtà isolana si sostituirono alle visioni di coloro che quella terra avevano prima attraversata, traendosi dietro illusioni, chimere, e vivendo in sostanza le delusioni di quella artificiosa parafrasi della realtà che tanto li aveva allettati.
Non mutarono invece, sostanzialmente, i parametri materiali del viaggio.
Si veniva in Sicilia, come per il passato, generalmente via mare da Napoli, per evitare il lungo e faticoso attraversamento delle Calabrie; vi fu, però, anche chi giunse per terra e persino a piedi, e a piedi proseguì il cammino nell’isola.
S’approdava di norma a Palermo (ma talora anche a Messina) con legni mercantili e, quando venne istituito un regolare servizio postale, con "pacchetti" (adattamento dell’inglese paquet-boat) a vela e più tardi a vapore; i naviganti in arrivo dall’Oriente o da Malta facevano scalo per lo più a Siracusa.
Da Palermo e men spesso da Messina, dunque, dopo aver visitato la città, s’intraprendeva il tour per l’isola in lettiga o a dorso di mulo.
Gli itinerari erano standardizzati, con qualche variabile: in genere, da Palermo si andava a ovest per Castellammare, Partinico, Alcamo, fino a Segesta, dove si aveva il primo ammaliante contatto con le vestigia del mondo classico; quindi si raggiungeva Trapani, per salire a Monte San Giuliano (l’odierna Erice), e costa costa, passando per Marsala e Mazara, si perveniva a Castelvetrano, obbligata tappa di transito nel percorso per Selinunte; da qui si proseguiva per Sciacca e Agrigento (ma vi era chi ad Agrigento si recava direttamente per la strada di Lercara, tagliando fuori dal proprio itinerario l’intera cuspide occidentale dell’isola), superata la quale era consueto piegare per l’interno, reputato più interessante malgrado le asperità, inoltrandosi, attraverso le aree zolfifere, alla volta di Canicattì e Caltanissetta: raramente, infatti, il viaggiatore proseguiva - dopo Agrigento - lungo la costa per Palma, Licata, Gela, fino a raggiungere l’area del ragusano e quindi Siracusa; poteva avvenire, invece, che dal caricatore di Agrigento (oggi, Porto Empedocle), noleggiata una "speronara", comodo barcone a vela e a remi, si dirigesse su Malta, raggiungibile in una giornata di navigazione col vento propizio, per far ritorno più tardi a Capo Passero; ma a Malta era solito recarsi piuttosto da Siracusa.
Dopo Caltanissetta, intanto, si proponeva una alternativa: o il percorso per Castrogiovanni (Enna), da dove, attraverso Leonforte, il viaggiatore raggiungeva Catania per discendere quindi a Siracusa; o l’altro per Piazza Armerina, Caltagirone, Lentini, Siracusa, da cui risaliva alla volta di Catania.
E qui era uno dei capisaldi ineludibili - insieme con le antichità greche - del viaggio in Sicilia: il vulcano dell’Etna, la cui ascesa era vissuta come sfida alle forze della natura, come affermazione della volontà dell’uomo sugli ostacoli e sulle avversità dell’esistenza.
La si compiva con muli e guida, via Nicolosi, fino alla Casa degli Inglesi, attraverso la zona boscosa e il terreno di lava e cenere; quindi a piedi si scalava il monte fino al cratere, per ridiscendere a volte per Giarre e affrontare da qui quel tratto jonico della costa fino a Messina ch’era unanimemente considerato il più suggestivo di tutta la Sicilia.
Nel tragitto, Taormina coi suoi paesaggi e il suo teatro, terzo polo di attrazione del tour, imponeva una visita non estemporanea.
Fu invece scarsamente praticato, fino a buona parte dell’Ottocento, il tragitto lungo la costa di tramontana, evitata per le difficoltà del percorso e lo scarso interesse che vi si annetteva, tanto che in principio non si effettuavano che le sole escursioni da Palermo a Bagheria e a Termini e, per coloro che muovevano da Messina, fino a Milazzo, da dove si raggiungevano le Eolie; ma, venute meno più tardi queste prevenzioni, non furono pochi i viaggiatori che dopo la metà del secolo ebbero a fare l’intero percorso.
Comunque, vi erano regolari servizi di navigazione fra Palermo e Messina, Messina e Siracusa e, sebbene assai radi, anche fra Siracusa ed Agrigento, praticati però per lo più - per comodità e soprattutto per motivi di sicurezza - dai nativi, perché i forestieri, optando per la via marittima nei loro spostamenti (ma qualcuno se ne servi) avrebbero molto perso dei vantaggi del viaggio, come rilevava l’inglese Standish, venuto nel 1837: "Il paesaggio è come un paradiso.
Per chi sopporta la fatica, viaggiare in lettiga o a piedi in Sicilia va benissimo perché può vedere un bello e pittoresco paese".
E qui va detto delle difficoltà, dei disagi, nei quali, ancora fino al pieno Ottocento (si immagini nei secoli precedenti!), incorreva l’avventuroso che viaggiava per la Sicilia. Non erano agevoli né sicure le comunicazioni fra le varie parti dell’isola: mancavano le strade e la sola carrozzabile era la Palermo-Catania; buona tratta era la litoranea da Messina ad Acireale, ma a sud di Catania la tratta fino a Siracusa era inibita alle diligenze e persino alle lettighe, potendo percorrersi solo a dorso di mulo; lungo la costa meridionale non c’erano strade; la Palermo-Messina s’arrestava a Termini per riprendere solo a Milazzo; una strada si dipartiva dalla capitale verso Agrigento, ma, dopo poche miglia, a Lercara s’interrompeva; per il resto, non c’erano che sentieri mal tracciati, e spesso perfino letti di torrenti a secco costituivano le sole possibili vie di transito.
Con gli alberghi non andava meglio: eccezion fatta per la situazione di Palermo, per altro non in tutti i casi priva di pecche, e in parte anche per quelle di Catania e di Siracusa, il viaggiatore doveva accontentarsi - quando pure nelle cittadine e nei paesi in cui giungeva ne trovava - di povere e malandate locande, incredibilmente sporche, prive spesso di arredi (persino del materasso, talora), di vetri alle finestre, di alimenti, dove ineluttabilmente finiva preda di famelici parassiti, che ne tormentavano le notti.
E singolare era che i loro proprietari nemmeno avessero la misura delle deficienze dei propri esercizi: ripetutamente dai viaggiatori si trova riferito il caso di un albergatore di Giardini, conduttore di una misera e però frequentata locanda, così persuaso del buon servizio offerto che dai propri avventori, al momento del congedo, pretendeva una autografa opinione in un librone che con orgoglio mostrava poi ai successivi clienti; solo che, semianalfabeta com’era e del tutto ignorante delle lingue, il poveretto non aveva consapevolezza dei sarcastici commenti che quelli vi depositavano.
Comunque, i conventi degli ordini religiosi - soprattutto francescani e cappuccini, meno spesso gesuiti - sopperivano ampiamente alle deficienze della ricettività.
Per la sicurezza, viceversa, non sorgevano complicazioni. Bande di briganti infestarono, è vero, in ogni tempo le contrade dell’interno, dominando interi territori, ma mai costituirono un reale pericolo per i viandanti forestieri, che difatti andarono indenni da qualsiasi turbativa, persino quando a viaggiare (si ebbero di questi casi) furono delle donne sole, che poi compiaciute narrarono la propria impresa.
Unico effettivo fastidio furono i timori che ugualmente si avevano o che venivano prospettati, tali da indurre talvolta all’impiego di scorte armate.
Altri inconvenienti? Gli interminabili controlli doganali e di polizia prima dell’Unità, che imponevano disagiate moratorie ai forestieri in arrivo, e gli ostinati assedi nelle città e nei paesi di intere torme di mendici imploranti con disperata petulanza l’elargizione di un obolo o di un po’ di cibo: e anche ciò, con il rilievo - nei visitatori più sensibili e attenti allo stato sociale dell’isola - delle reiette condizioni di quella terra, che pur vedevano gratificata dei doni della bellezza e della fertilità, fece parte delle annotazioni che versarono nei propri diari e nelle proprie corrispondenze.
Con la fine dell’Ottocento il viaggio in Sicilia (che negli anni della belle époque si caratterizzò per una aristocrazia affluenza della haute internazionale nella Palermo dei Florio e dei Whitaker) entrò in una moderna dimensione: non più condizionato dagli jugulatori paradigmi della tradizione umanistica, non più selettiva esperienza di una avventurosa intellettualità, s’avviò a realizzarsi - ciò che venne avverandosi dopo il primo ventennio del Novecento - come fenomeno di massa.
Al contempo, il racconto odeporico pervenne a nuova dignità: affrancato dall’obbligo alla mediazione della realtà, che gli avanzati strumenti di comunicazione già rendevano universalmente nota, poteva ora proporsi, per mano spesso di felici redattori, quale espressione anche di una creativa e personale letterarietà.
Il sommario excursus appena delineato introduce a questi Viaggiatori stranieri in Sicilia dagli Arabi alla seconda metà del XX secolo (ma è registrato, per il suo interesse e forse per la sua singolarità, anche un episodio precedente l’avvento islamico).
Opera, questa di Salvo Di Matteo, storico e saggista, fra i più noti ed apprezzati studiosi di cose siciliane, autore di opere concernenti diversi aspetti della storia e della civiltà artistica della Sicilia e di Palermo, sua città, e di vasto impianto e senza precedenti in Italia, esito prezioso di specifiche esperienze e di pluriennali ricerche in diverse biblioteche italiane ed estere e di ricorsi alle librerie degli antiquari.
Essa recensisce in ordine alfabetico-onomastico di un millennio di vicende odeporiche in Sicilia, qualificandosi - per la ricchezza del repertorio, per la globalità dell’informazione, per l’inquadramento tematico di molte delle voci e per il metodo e la misura della narrativa - come opera insieme di bibliografia e di storiografia, aggiornato strumento di consultazione e di studio.
Essa ottempera a una fin qui poco esaudita esigenza di ricerca e di nuove acquisizioni, operando direttamente su materiali rarissimi e per lo più inediti in Italia, aprendosi anche alla investigazione del negletto contributo dei viaggiatori provenienti dalle altre regioni italiane, ricostruendo sulle fonti disponibili le periegesi e gli interessi di coloro che non hanno lasciato documentazione del proprio transito, registrando infine con filologica cura ogni dato valido per la bibliografia.
Risponde insomma alla sostanza del problema attuale della nostra storiografia di viaggio. Essa inoltre opera il recupero - quanto più completo possibile - di memorie, di documenti, delle attestazioni delle vicende odeporiche nell’isola e delle impressioni di personaggi illustri, men noti e finora del tutto sconosciuti.
E costituisce, anche, attraverso una tale operazione, il referto di molte testimonianze della materiale realtà della Sicilia attraverso i secoli.
Dalla analitica esegesi dei molti viaggi e delle presenze forestiere, dalle migliaia di schede che - in virtù dell’esprit de finesse dell’Autore - si rivelano tutt’altro che fredda e informale successione di enciclopediche voci, emerge, infine, pur nella necessaria segmentazione della materia, il panorama delle relazioni culturali fra la Sicilia e l’Europa (ma, può dirsi, il resto del mondo): il panorama, se altrimenti si vuole, del ruolo assolto in ogni tempo dall’isola nel sentimento, negli interessi, nelle istanze culturali, nella consapevolezza delle altre genti.
Orazio Cancila
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